Rubrica
a cura di Attilio Mazza


QUEI BAMBINI CRISTIANI SACRIFICATI NEI RITI



Ariel Toaff, «Pasque di sangue», Il Mulino, 366 pagine, € 25,00


Il libro di Ariel Toaff, docente di Storia del Medioevo e del Rinascimento nella Bar-Ilan University in Israele, ha suscitare un vero clamore per affrontare, coraggiosamente, uno dei temi più controversi nella storia degli ebrei d'Europa, da sempre cavallo di battaglia dell'antisemitismo: l'accusa rivolta loro per secoli di rapire e uccidere bambini cristiani per utilizzarne il sangue nei riti della Pasqua. L’opera, edita dal Mulino e che continua a suscitare polemiche al punto che lo stesso autore ha deciso di toglierla dalle librerie, s’intitola «Pasque di sangue».

Toaff informa che in Italia, processi per omicidio rituale si ebbero quasi esclusivamente nella parte nord-occidentale, dove vi erano comunità di ebrei tedeschi (askhenaziti). Il caso più famoso accadde nel 1475 a Trento, dove numerosi ebrei della comunità locale furono accusati e condannati per lo morte del piccolo Simonino, che lo Chiesa ha poi venerato come beato fino a pochi decenni fa.

Rileggendo senza pregiudizi lo documentazione antica di quel processo e di vari altri alla luce della più vasta situazione europea, e anche di una puntuale conoscenza dei testi ebraici, l'autore mette in luce i significati rituali e terapeutici che il sangue aveva nella cultura ebraica, giungendo alla conclusione che, in particolare per l'ebraismo askhenazita, «l’accusa del sangue» non era sempre un'invenzione.

«I processi per omicidio rituale – scrive lo studioso nell’introduzione – costituiscono una matassa difficile da dipanare, dove chi intende esaminarli va in genere alla ricerca di conferme, più o meno convincenti, alle teorie che ha sviluppato in precedenza e in cui sembra credere fermamente. Gli elementi che non si attagliano al quadro sono spesso minimizzati nei loro significati, talvolta passati sotto silenzio. Stranamente in questo tipo di ricerca si dà già per assodato a priori quello che dovrebbe essere dimostrato. Chiara è la percezione che un diverso atteggiamento presenterebbe pericoli e implicazioni, che si intendono evitare a ogni costo. Non v'è dubbio che l'uniformità delle confessioni degli imputati, contraddetta solo da varianti e incongruenze generalmente legate a particolari di secondo piano, era assunta dai giudici e dalla cosiddetta “opinione pubblica” come conferma che gli ebrei, caratterizzati dalla loro grande mobilità e diffusione, praticavano riti orrendi e micidiali in odio alla religione cristiana. Lo stereotipo dell'omicidio rituale, come quello della profanazione dell'ostia e del sacrificio cannibalico, era presente a suggerire a giudici e inquisitori la possibilità di estorcere agli imputati confessioni simmetriche, armoniche e significative, mettendo in moto denunce a catena, da cui partivano vere e proprie cacce all'uomo e massacri indiscriminati.»

«Fino a oggi la quasi totalità degli studi sugli ebrei e l'accusa del sangue – scrive ancora Toaff – si sono concentrati in modo pressoché esclusivo sulle persecuzioni e sui persecutori, sulla loro ideologia e sulle loro presumibili motivazioni, sul loro odio verso gli ebrei, sul loro cinismo politico o religioso, sul loro astio xenofobo e razzista, sul loro disprezzo per le minoranze. Nessuna o quasi nessuna attenzione è stata prestata agli atteggiamenti degli ebrei perseguitati e ai loro comportamenti ideologici, anche quando essi si confessavano colpevoli delle accuse specifiche di cui erano fatti oggetto. E ancor meno, ovviamente, sono sembrate degne di interesse e di indagine seria le motivazioni di quei comportamenti e di quegli atteggiamenti, che si liquidavano apoditticamente come inesistenti, inventati di sana pianta da menti malate di antisemiti e cristiani esaltati, ottusamente apologeti. Tuttavia, per quanto di ardua digestione, quelle azioni, una volta dimostrata o anche soltanto supposta come possibile la loro autenticità, vanno affrontate seriamente dallo studioso».

E quasi prevedendo il clamore della sua ricerca, Toaff afferma che allo studioso non può essere lasciata come unica e banale alternativa la condanna o l’aberrante giustificazione di tali episodi di sangue. «Deve essergli invece concessa la possibilità di tentare una seria ricerca sulle loro effettive o presumibili motivazioni religiose, teologiche e storiche».