Rubrica
a cura di Attilio Mazza


CACCIA ALLE STREGHE PER APPROPRIARSI DEI BENI



Andrea del Col, «L’Inquisizione in Italia»,
Oscar Mondadori, 964 pagine, € 15,80



«Alla fine del secondo decennio del Cinquecento risale la più grande caccia alle streghe finora nota nella storia italiana: quella avvenuta in Valcamonica». Furono condannate al rogo un’ottantina di persone. Solo grazie all’intervento della Repubblica Serenissima di Venezia, sotto il cui dominio era la Valle e tutto il Bresciano, fu posta fine alla persecuzione.

Lo racconta Andrea del Col, docente di Storia dell'età della Riforma e della Controriforma all'Università di Trieste, tra i maggiori specialisti di storia dell'Inquisizione romana nel volume «L’Inquisizione in Italia», edito da Mondadori nella collana Oscar (964 pagine, € 15,80).

Il fenomeno delle streghe e degli stregoni, o maghi, fu costante nei secoli. I mali quotidiani erano attribuiti alle streghe e ai loro compagni, tutti considerati operatori al servizio del diavolo, loro istigatore. Questa concezione era del resto comune nella società europea nell’arco di un vasto periodo, dal tardo medioevo e sino all'età moderna. Essa rispondeva «a molteplici bisogni di difesa dai mali personali e collettivi in un periodo travagliato e difficile. I processi e le condanne a morte di uomini e donne ritenuti ministri di satana, riuniti in una setta anticristiana, iniziarono in scala ridotta già nel primo Quattrocento, crebbero nella seconda metà del secolo e nei primi decenni del Cinquecento e divennero vere e proprie cacce alle streghe con particolare intensità dal tardo Cinquecento alla metà del Seicento, soprattutto nell'Europa centro-settentrionale».

La documentazione relativa alla Valle Camonica, annota Andrea del Col, è interessante proprio per gli elementi culturali del sabba. Nei documenti dell’unico processo relativo a una “strega” non camuna, «si osserva chiaramente come nelle credenze della donna permangano elementi di miti popolari precedenti (la “signora del zuogo”), che vengono trasformati e inseriti nello stereotipo del sabba durante il processo».

Nelle poche relazioni rimaste sui fatti camuni, scritte da uomini di cultura, si trovano altri accenni al sabba diabolico, come nella lettera del 28 luglio 1518 di un giurista che aveva assistito alle confessioni e alle esecuzioni degli imputati: «Queste bestie eretiche hanno electo uno monte, el qual se chiama monte Tonale, nel qual se reduseno ad foter e balare, qui afirmano che non trovano al mondo nihil delectabilius et che onzendo un bastone, montano a cavalo et efìcitur equus, sopra il quale vanno a ditto monte et ibi inveniunt el diavolo, quale adorano per suo Dio et signore, et lui ge dà una certa polvere, con la quale dicte femene et homeni fanno morir fantolini, tempestar, et secar arbori et biave in campagna, et altri mali».

A quanto sembra giudici e uomini di cultura credevano pienamente alla stregoneria demoniaca, mentre gli imputati se la vedevano imporre durante i processi. Vi erano, tuttavia, anche degli scettici. Un testimone oculare degli otto roghi di Pisogne, affermò, infatti: «A me pareno grande cosse da dire, et son tutto admirativo et fuor di me, et lo credo et non lo credo». Era, dunque fuori di sé, incerto se credere a tali racconti.

Tra fine giugno e metà luglio i giudici della fede fecero comunque eseguire nella sola Valle Camonica 62 sentenze capitali contro streghe e stregoni (oppure 80, secondo alcuni documenti) e sequestrarono i loro beni. Circa altrettante persone furono incarcerate e poste sotto processo, su circa cinquemila abitanti dei paesi interessati. Per due terzi i condannati a morte erano donne, dotate di “una natura perversa”, a differenza degli uomini, come si espresse un frate domenicano bresciano: «tu cognosci quanto è maligna la natura delle done et prona a la luxuria et atto carnal, ho voluto tor queste, le qual done et strige, dico di quelle che vano [al sabba], si trovano che hanno sessanta anni».

«La mancanza di documentazione adeguata – commenta lo studioso –, e gli striminziti accenni in quella disponibile, permettono d’immaginare solo vagamente i contorni dell'intervento del vescovo bresciano Paolo Zane che andò di persona in Valcamonica in risposta a richieste giunte dalla valle, probabilmente da autorità o da notabili. Egli giudicò particolarmente grave la situazione, tanto che superò tutti i disagi personali connessi al viaggio e alla permanenza. Ci fu una campagna di predicazione da parte del vescovo e dei suoi delegati, alcuni degli imputati confessarono subito le proprie colpe e vennero condannati a pene leggere, ma la maggior parte non adottarono questa strategia e furono sottoposti a tortura. Ciascuno di loro rivelò fino a 40-50 nomi di altri partecipanti al sabba e riconobbe di aver ucciso con i malefici fino a 40-50 bambini, in un caso anche 200 [sic!], una donna addirittura tre dei suoi figli. Sembra che tutti i condannati a morte venissero bruciati vivi, segno che erano ostinati o recidivi. Le condanne vennero emesse da giudici diversi in luoghi diversi. Il vescovo e i suoi delegati ebbero la parte preponderante nella persecuzione, mentre la figura del viceinquisitore domenicano restò defilata. Ci sono tutti gli elementi tipici di una grande caccia alle streghe, con la sua terribile catena di processi e di roghi».

La vicenda inquietò i magistrati della Serenissima e alla fine di luglio il potente Consiglio veneziano bloccò l'azione degli inquisitori in Valcamonica, ordinando al podestà di Brescia di recarsi segretamente nella valle e di farsi consegnare dal vescovo tutti i documenti dei processi in corso e quelli già conclusi. Il podestà fu anche incaricato di avviare un'indagine «sul comportamento dei giudici della fede riguardo gli esami dei testimoni, la confisca dei beni dei condannati e il modo con cui i beni erano stati divisi e a chi erano assegnati in godimento; i vicari, inquisitori, notai e il capitano della valle, dovevano presentarsi agli stessi capi per rispondere del loro comportamento. L’intervento statale fu drastico: trattandosi di questioni concernenti la vita e i beni dei sudditi, il governo non accettò limitazioni della propria autorità, neppure se sostenute dal diritto canonico, e volle avere tutte le informazioni dirette possibili». Il Consiglio dei dieci chiese al papa che fossero rivisti i processi, fossero accertate le responsabilità dei giudici precedenti e venissero eventualmente puntiti i responsabili. Tale drastica presa di posizione dei magistrati della Serenissima legittima il sospetto che la cacciata alle streghe camune fosse una montatura dettata da ben altre ragioni. 

«La persecuzione delle streghe in Valcamonica – conclude lo studioso – fu chiusa d'autorità dal governo veneziano in modo spiccio, senza tante spiegazioni di ordine teologico o canonistico e senza aspettare, questa volta, l'approvazione della Santa Sede».