ESOTERICA - A cura di Attilio Mazza
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I PARADOSSI CREATI DALLA TEOLOGIA



Ulrich Beck, «Costruire la propria vita», Il Mulino, 158 pagine, € 9,00


Ulrich Beck, docente di Sociologia nell'Università di Monaco e alla London School of Economics, è autore del saggio «Costruire la propria vita», pubblicato dal Mulino nella nuova elegante collana “Voci”. L’articolazione del testo offre molti spunti di riflessione, fra cui anche sulla religione.
L’ultimo capitolo, infatti, è intitolato «La propria vita, la propria morte». Trattando il tema della fine, Beck scrive che l'idea della morte «può avere l'effetto di aprire la strada a una più ampia libertà. Essa mette in discussione l'ordine della gerarchia sociale e fa pensare con rammarico a quanti hanno lottato, mentito, imbrogliato se stessi e gli altri, vessato e prevaricato sul prossimo al solo scopo di arrivare ai vertici di ciò che si rivela un assurdo nulla! Ogni verità, ogni dovere, ogni urgenza, il continuo cercare, affliggersi, fuggire, combattere, amare, mentire o dissimulare, non hanno altro destino se non di approdare sempre e comunque alla fine assoluta. Montaigne ha scritto che “filosofare significa imparare a morire”».
E proprio per giustificare il senso della vita e della morte i teologi, «oltre che in dispute ufficiali, devono misurarsi di continuo con diversi paradossi. Essi ammettono che, in linea di principio, la propria vita abbia valore in sé e vada pensata come capace di autodeterminarsi, e inoltre che essa sia aperta all'errore. Nella prospettiva teologica, la libertà è rappresentata dall'umana possibilità di peccare. Ma non è già questa un'eresia? Che ne è di Dio, se all'uomo è consentito sbagliare? Nel corso della vita, l'assunzione individuale della colpa è il primo passo in direzione sia dell'ateismo, sia di una vita propria vissuta consapevolmente».
E ancora: «Su tale questione la dottrina della Chiesa denota una singolare ambiguità: da un lato, il mondo e le lotte per la sopravvivenza degli individui non hanno alcun valore al cospetto di Dio; dall'altro, tanto la vita eterna quanto l'eterna dannazione dipendono da quanto si realizza nella propria vita terrena. A sciogliere il dilemma è solo la morte: essa, anziché la fine, è una prova, o meglio la prova decisiva da superare nel percorso verso la vita eterna (qualcosa di simile, insomma, al concorso statale che oggi dà accesso all'impiego pubblico a tempo indeterminato). L'enormità della pena minacciata in caso di errore (l'inferno) è il rimedio con cui i teologi tentano di compensare il lapsus nel quale sono incorsi: quello, cioè, di aver lasciato gli uomini in balia della propria vita e dell'assenza di Dio. La vita dell'uomo comincia e si misura di continuo con la minaccia della dannazione eterna. La libertà, la sfrenatezza e l'anarchia di una vita che è fondata solo su se stessa sono concesse e abrogate allo stesso tempo. Analogamente, ciò che dovrebbe affliggere gli uomini (e che di fatto li ha intimoriti per lungo tempo) nella prospettiva della fine, non è tanto la paura della morte o del morire, quanto quella di precipitare all'inferno. Ma è pur vero che così la vita resta comunque affidata solo a se stessa».
Ed ecco, allora, che alla prova da sostenere dinanzi a Dio «corrisponde quella che occorre dare di sé in campo professionale. Come ha mostrato Max Weber nel suo celebre studio sul protestantesimo, la mancanza di riguardo con cui gli uomini moderni conquistano e dissacrano il mondo e le sue tradizioni trae la propria giustificazione dall' “esame” terreno che gli uomini sostengono a beneficio di Dio. La possibilità di condurre una vita propria diviene allora il bene supremo, che prende il posto della stessa grazia di Dio. Tale autoesautoramento (che la stessa teologia incita quasi scavandosi la fossa), procede inesorabilmente nel corso del tempo, conducendo gradualmente alla secolarizzazione».