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Enrico Di Carlo
Gabriele d’Annunzio e la gastronomia abruzzese

Verdone editore, 104 pagine, € 10,00

Gabriele d’Annunzio rimase abruzzese pure negli ultimi diciassette anni di vita al Vittoriale, anche se ebbe il vezzo di firmarsi «Gabriele da Brescia». Lo conferma il saggio di Enrico Di Carlo, studioso dell’opera e della vita del poeta, autore di apprezzate pubblicazioni. Il suo ultimo lavoro s’intitola Gabriele d’Annunzio e la gastronomia abruzzese (Verdone editore, 104 pagine, € 10,00).
Il libro documenta tutte le passioni che il vate ebbe per la buona cucina. Non mancò, inoltre, di voler far credere di essere anche un ottimo cuoco. Ma non fu né cuoco, né un ghiottone. Negli ultimi tempi (e non solo), preferì addirittura il digiuno alla buona tavola, rievocando la dieta arcaica dei pastori abruzzesi. Spiegò la ragione di ciò al proprio medico personale Antonio Duse di Salò: «Noi in Abruzzo ci curiamo così, e si campa cent’anni. Un pastore della Majella ne sa più di te!».
Tradizioni, sapori, profumi della sua terra portata nel cuore per la vita intera: in Francia, a Fiume, sul lago di Garda. Non a caso d’Annunzio scrisse nel Libro segreto: «Porto la terra d’Abruzzi, porto il limo della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco de’ miei stivali».
Enrico Di Carlo ricostruisce nel suo saggio, ancora prima dei gusti gastronomici del poeta, le atmosfere del mondo in cui ebbe l’educazione ai sapori. A cominciare dalla cucina di mammà che è sempre la più saporita del mondo. Nella mano sapiente della madre – annota nell’introduzione Massimo d’Alessio, dell’Accademia italiana della cucina – «riconosceva il pesce in umido, la crema casalinga, il croccante di mandorle e il capitone». Amori e sapori, dunque, strettamente congiunti, a cominciare da quello per l’adoratissima mamma, donna Luisa de Benedictis andata in sposa a 25 anni a don Francesco Paolo d'Annunzio.
Umberto Russo, dal canto suo, ricorda nella prefazione che Enrico Di Carlo in questo saggio coglie dal vivo Gabriele d’Annunzio: «dalla fervida giovinezza in terra d’Abruzzo all’inarrestabile declino tra le mura del Vittoriale mentre festeggia con gli amici più cari intorno al desco imbandito o assapora in solitudine un dolce che gli rimembra il paese natio». Un ritratto “di profilo”, dunque, nel susseguirsi delle stagioni, nell’evoluzione del gusto (non solo alimentare); un uomo e un personaggio rivisitato anche attraverso l’infinito epistolario e la vasta produzione letteraria.
 Gli anni del Vittoriale entrano in queste pagine non solo nel capitolo specifico. Di Carlo scrive, opportunamente, che fu quello il tempo in cui «più intensamente affiorarono le ombre del passato» che gravarono ulteriormente la sua «divina sorella Malinconia» che quando credeva di tradirla, «non si sentiva tradita». Gli amici pescaresi, per alleviare il peso dei giorni, gli inviarono spesso qualche ghiottoneria. Oltre al mitico Parrozzo (tipico dolce abruzzese), durante le feste di Natale del 1927, gli spedirono addirittura una porchetta che gli ispirò uno dei sonetti dialettali più nostalgici. E scrisse «non sacce pecché mentre che magne, me piagne lu córe».


A cura di Attilio Mazza