Il pianeta di Paola Bonfadini

SESSANTACINQUESIMA TAPPA


Dittico dannunziano

Parte prima

"I colori della notte":

Notturno di Gabriele d'Annunzio


Le parole? Forse inutili, certo inadeguate per descrivere l'intensità della prosa dannunziana nel Notturno, opera pubblicata dai fratelli Treves in Milano nel 1921, con belle xilografie di Adolfo de Carolis.

Il volume, raro tesoro d'una biblioteca scolastica, giace quieto ed inesplorato. Complice la curiosità, la noia per le edizioni moderne ineleganti, "al risparmio", lo prendo in prestito. In realtà c'è anche la necessità di poter sforzare meno gli occhi, lo confesso. Trovo, infatti, un po' di refrigerio visivo nella pagina antica dagli ampi margini, nei caratteri raffinati e molto nitidi, nelle spaziature che respirano. Ah, come lavorano bene i tipografi del "tempo che fu"!

Mi accingo, perciò, con calma alla lettura.

Il Vate (Pescara 12 marzo 1863 - Gardone Riviera 1° marzo 1938) viene ferito nel 1916, durante la Grande Guerra , ad un occhio. Passa la convalescenza a Venezia in una splendida villa, aiutato dalla figlia illegittima Renata, soprannominata Sirenetta. La giovane decifra e riscrive le numerose striscioline di carta che il padre traccia al buio, nel letto, durante la sofferenza ("Resto nel buio, supino e immobile come i dannati del terzo girone sotto la pioggia di fuoco. Le fiammelle sprizzano da me e mi ricadono addosso e mi bruciano e mi piagano" p. 172).

L'opera assomiglia ad un diario, ma è poco classificabile. Ugo Ojetti, amico giornalista, definisce il lavoro "libro di spasimo e di rassegnazione, d'orgoglio e di umiltà" (Ugo Ojetti, Prima del "Notturno" in Cose viste, pp. 31-34). L'autore intreccia il dolore fisico della menomazione con ricordi di fatti presenti o passati. L'affetto straordinario per la madre, la giovinezza in Abruzzo, i viaggi, gli amori ("Ma quando l'amore non mi farà più male?" p. 369; "L'amore insaziato ignora la colpa" p. 477), gli eroismi in volo ("Chi non teme la morte, non muore. E la morte non vuole chi la cerca" p. 296), il forte legame con altri soldati, la passione per la musica, per Michelangelo (pp. 420-421): le pagine trasudano degli umori, dei sentimenti, dei desideri di Gabriele. Proclama: "Inebriatemi di musica. Fatemi piangere ancora lacrime d'anima. Toccate con la melodia il fondo della mia piaga, a suscitarvi i colori indicibili che non appariscono se non nello spettro luminoso delle stelle" (p. 212); "Tutto è presente. Il passato è presente. Il futuro è presente. Questa è la mia magia. Nel dolore e nelle tenebre, invece di diventar più vecchio, io divento sempre più giovine" (p. 229).

Egli non è più solo l'esteta de Il piacere.

Qui si avverte una maggiore autenticità, la capacità di coinvolgere il lettore, anche moderno.

Non mancano i toni da 'superuomo' ("Nulla oggi ha misura. Il coraggio dell'uomo non ha misura. L'eroismo è senza limiti. Al vertice della potenza lirica è il poeta eroe" p. 215), da guerriero ("Non so se io abbia più sete di acqua o più sete di musica o più sete di libertà" p. 220), ma trapela la malinconia, la sensibilità totalizzante che rende il personaggio molto più vicino ("La tristezza umana è divenuta una materia plastica. Non so qual pollice misterioso la modelli incessantemente" p. 173); "l'occhio è il punto magico in cui si mescolano l'anima e i corpi, i tempi e l'eternità" p. 229).

 Al di là dell'epica, sotto il velame, Notturno sembra quasi un bilancio esistenziale: superati i cinquant'anni, rimane inalterato l'ardore per un ideale, per il rischio, ma anche persiste l'amicizia per i compagni d'arme, la disperazione per i tanti amici perduti.

Spesso lo scrittore rivela l'affetto per la figlia, la lotta impari contro la ferita ("Datemi un poco di luce. Aprite le finestre. Levatemi da questo buio spaventoso, dove non ho mai pace… E io vedo, vedo, sempre vedo. E di giorno e di notte, sempre vedo" p. 170). Si evidenzia, poi, lo smisurato amore per la musica: le composizioni di Skriabin ("Le ore passano. La musica è come il sogno del silenzio" p. 243), le intavolature per liuto (pp. 434-438), la chitarra, il violoncello (pp. 426-431), il canto (pp. 406-407). Essere, quindi, temporaneamente cieco permette d'assaporare fino in fondo suoni, sapori, profumi, nel tentativo di non rimanere isolato dall'amato mondo pulsante e scintillante: "La forza cieca della trasformazione è inarrestabile. Il mio buio è scosso da tonfi sordi… Il cieco è condannato a vedere sempre" (pp. 174-175); "La vita non è un'astrazione di aspetti e di eventi, ma è una specie di sensualità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare, da palpare, da mangiare" p. 267).

Finita, dunque, la lettura del volumetto, resta la sorpresa. Qualche pagina ardua c'è, per esempio il racconto della fine dell'amico soldato Giuseppe, ma percepisci una tensione, un invito a non arrendersi mai. Si respira un pochino del titanismo alfieriano, dei lievi licori crepuscolari, ma anche l'"eroe più disincantato che rinsavito" del Didimo Chierico foscoliano.

E tutto ciò fa bene al lettore moderno, soprattutto se comunicato con periodi cortissimi ed incisivi, parole pregnanti ed allusive, lucenti come certi smalti medioevali: è la "prosa d'arte" dannunziana.

Ti accorgi che stai meglio, ti trovi ad apprezzare il tanto vituperato e roboante Gabriele d'Annunzio, pagano e peccatore, eroe di guerra e donnaiolo, né pio né santo.

Perché? Pare di cogliere, o ti illudi di percepire, la lezione di un grande individuo.

Egli, non solo modello di trasgressione e amoralità, si delinea figura capace di buttarsi a capofitto nel mare agitato dell'esistere, accettando nel fisico e nell'animo gioie, dolori, contraddizioni, vizi e virtù, grandezza e fragilità della condizione umana. Almeno nel Notturno.

Ci incita a resistere ("Non ho mai avuto paura di soffrire" p. 185; "Ecco, non ho più l'ansia del tempo" p. 455), a non cedere: "Ero vigile, attento alla mia voglia. Ero quel che sono quando la mia natura e la mia cultura, la sensualità e la mia intelligenza cessano di lottare e si conciliano compiutamente. Ero mistero musicale, con in bocca il sapore del mondo" (p. 150); "Il silenzio si apriva dinanzi a noi, si partiva a destra e a sinistra fluendo lungo i nostri fianchi come il fiume leviga il nuotatore. Il nostro sentimento era semplice ed ineffabile. Eravamo poveri e leggeri, eravamo ricchi e leggeri. Eravamo come due mendicanti senza bisaccia e come due regnanti senza diadema" (p. 151); "Mi soffermai socchiudendo gli occhi per contenere sotto le palpebre la mia felicità. Più non ero se non un solo senso. Tutto il mio cervello palpitava con le mie nari sagaci" (p. 151).

 Come affrontare "l'aspra contesa dello stato umano", secondo il poeta pescarese?

"Non so più dove sia il mio male. Il mio male è un bene che non si conosce" (p. 211) "Tutto è sogno, e fato occulto, e predisposizione di volontà" (p. 287): spetta ad ognuno di noi scoprire il segreto dell'esistere.

Per saperne di più

- GABRIELE D'ANNUNZIO, Notturno, Fratelli Treves, Milano 1921.

- UGO OJETTI, Cose viste, Sansoni, Firenze 1960.