CULTURA - A cura di Paola Bonfadini

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La sapienza della vita:
il De coniuratione Catilinae di Sallustio


«Siamo nani sulle spalle di giganti» dice un saggio medioevale: gli antichi, infatti, possiedono la sapienza della vita. Le parole dei Greci e dei Latini ci obbligano, che lo vogliamo o no, a far luce in noi stessi. Conforto in secoli bui, Roma ed Atene ci guidano nel mare periglioso dell’esistenza. Certo, anche la classicità ha luci ed ombre, ma, forse, c’è, più che in noi moderni, il lucido disincanto, in nome di un’istanza etica tanto bramata quanto irraggiungibile.
Valori come la giustizia, il bene comune, la sobrietà, l’equilibrio di pensiero e azione sono un vano sogno, una pietosa illusione?
Domanda senza risposta, ma leggere Sallustio, Cicerone, Seneca, Platone, Luciano o Euripide abitua ad interrogarsi sulle contraddizioni della realtà e sull’abisso fuori e dentro di noi.
Tutto ciò qualcuno potrebbe pensare dopo la lettura di un testo illuminante quanto attuale, il De coniuratione Catilinae di Gaio Sallustio Crispo (Amiterno 86 a .C. - Roma 36/35 a.C.) (GAIO SALLUSTIO CRISPO, La congiura di Catilina, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, BUR Rizzoli, Milano 1992), spregiudicato uomo politico ed incisivo commentatore di fatti rilevanti come, appunto, la congiura del nobile Lucio Sergio Catilina, scoperta dall’oratore Cicerone, console nel 63 a .C., e la guerra contro il re africano numida Giugurta nel 118 a .C.- 104 a .C., triste antefatto alla sanguinosa guerra civile tra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla (GAIO SALLUSTIO CRISPO, Bellum Iugurthinum, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, BUR Rizzoli, Milano 1991).
L’autore descrive in sessantuno capitoletti con un latino aspro a tratti arcaico, con periodi brevi e nervosi, uno degli episodi più oscuri della storia repubblicana di Roma. Catilina tra il 66 a .C. e il 63 a .C. decide, all’inizio, con un pugno di uomini e, in seguito, con il favore sempre più ampio di masse di giovani, poveri e “proletari” di rovesciare l’oligarchia senatoria al potere da secoli (“Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque eis aliena virtus formidulosa est.”, “Infatti, i re hanno in sospetto le persone di valore più che le nullità e le doti morali li mettono in apprensione.”, SALLUSTIO, op. cit. 1992, VII, 1, pp. 86-89).
Lo spiantato nobile “rivoluzionario” non riuscirà nell’intento, tradito da alcuni compagni: egli morirà in battaglia dopo aver combattuto con disperato coraggio (“Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat.”, “Un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme.”, in SALLUSTIO, op. cit. 1992, V, 5-6, pp. 84-85; “Incitabat praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.”, “Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano due vizi diversi ma parimenti funesti, lusso e cupidigia.” (SALLUSTIO, op. cit. 1992,V, 8, pp. 84-85).
Romano contro Romano, fratello contro fratello, padre contro figlio: non ci sono, tuttavia, né vinti né vincitori, soltanto una ferita non guaribile, segno d’una crisi politica e sociale che consumerà il popolo latino, vittima delle ambizioni dei War Lords, i signori della guerra da Cesare ad Ottaviano.
Sallustio, invischiato profondamente nelle vicende del mondo, acerrimo anniversario di Cicerone  e fedele seguace di Cesare, assiste impotente a simili situazioni, fino al ritiro nella fastosa villa cittadina.
La politica disgusta il personaggio: non rimane che la cultura, la storia, la letteratura: l’erudita, nella quiete del sue stanze, ha modo di fare i conti con i fantasmi del passato, con le colpe del presente e con le aspirazioni alla pace e all’ordine per il futuro (“Verumenimvero is demum mihi vivere atque frui anima videtur, qui aliquo negotio intentus praeclari facinoris aut artis bonae famam quaerit.”, “Al contrario, a me sembra veramente vivere e far uso intelligente delle sue facoltà chi s’impegna in un lavoro o cerca distinguersi con un’opera insigne o si dedica a un nobile intento.”, in SALLUSTIO, op. cit. 1992,  II, 9, pp. 78-79; “Sed in magna copia rerum aliud alii natura iter ostendit.”, “Nella molteplicità del reale, la natura addita a chi una strada a chi un’altra.”, in SALLUSTIO, op. cit. 1992,  III, 1, pp. 78-79).
Le opere conservate si trasformano, così, in una sorta di bilancio esistenziale d’una civiltà.
Basta con la tradizione annalistica, ossia il resoconto anno per anno, portata a compimento da Tito Livio. Basta: occorre una nuova forma comunicativa, la monografia storica, quale analisi di particolari figure e problemi. La storia, per Sallustio, diviene laboratorio di riflessioni sui “mala tempora”, sulle storture del presente, da rintracciare nelle questioni non risolte arcaiche.
Per capire il disagio di Roma l’autore, quindi, parla della congiura di Catilina e, poi, va ancora più indietro, ai fatti cioè del II secolo a.C.
Come è stato possibile cadere nel baratro?
La relazione tra crescente benessere economico e debolezza morale: è l’unica risposta (“Namque avaritia fidem, probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, se ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere.”, “Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse gli uomini all’arroganza, alla crudeltà, alla negligenza degli dei, alla convinzione che c’è cosa che non sia in vendita. L’ambizione indusse molti a fingere, a tener chiuso nel cuore un pensiero e manifestarne un altro, a considerare amici e nemici non per i loro meriti ma per il vantaggio che potevano ricavarne, a parere onesti più che ad esserlo”, in SALLUSTIO, op. cit. 1992, X, 45, pp. 92-95). Come dirà Dante, “ricchezza, invidia, avarizia son le tre faville ch’anno i cuori accesi”.
Ecco, allora, che sulla drammatica scena campeggiano, isolati dal contesto contraddittorio ed informe del litigioso senato e del volgo ignorante, le personalità ora eroiche, come quelle di Cesare (SALLUSTIO, op. cit. 1992, LI, 1-43, pp. 160-171) e Catone l’Uticense (SALLUSTIO, op. cit. 1992, LII, pp. 1-36, pp. 171-181), ora fascinosamente sinistre come Catilina (SALLUSTIO, op. cit. 1992, V, 1-9, pp. 82-85; LVIII, 1-21, pp. 188-191): sono uomini che esprimono le mille sfaccettature dell’età repubblicana al suo finire.
Il tentativo di ribellione dello sfortunato e feroce nobile latino è, dunque, solo l’inizio d’una catastrofe già annunciata dalla lotta tra Mario e Silla circa quarant’anni prima.
Quello che aspetta il popolo romano, sembra profetizzare Sallustio, è un’ineluttabile età di morti, violenze fratricide, dolore infinito (“Ita varie per omnem exercitum laetitia, maeror, luctus atque gaudia agitabantur”, “Così varie trascorrevano su tutto l’esercito gioia e mestizia, esultanza e dolore.”, in SALLUSTIO, op. cit. 1992, LXI, 9, pp. 196-197).


Per saperne di più

GAIO SALLUSTIO CRISPO, La congiura di Catilina, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, BUR Rizzoli, Milano 1992.
GAIO SALLUSTIO CRISPO, Bellum Iugurthinum, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, BUR Rizzoli, Milano 1991.