Rassegna Stampa

Venerdì 21 marzo 2003

Giulio Giorello in Loggia

GUARDARE IL CIELO PER CONOSCERE MEGLIO NOI STESSI.

di Alberto Ottaviano


I cieli dell’Iraq sono solcati dai missili e dai bombardieri: una conversazione sul cielo tenuta al Vanvitelliano nel primo giorno di guerra (mentre dall’esterno filtravano i rumori della manifestazione pacifista) non poteva evitare almeno un accenno al conflitto. E Giulio Giorello, all’inizio del suo intervento, ha espresso il suo dissenso nei confronti di una guerra di cui non può condividere «nè la motivazione politica, né l’aspetto legale». Giorello - ordinario di filosofia della scienza alla Statale di Milano, saggista, collaboratore del Corriere della sera - è stato il protagonista del secondo incontro del bel ciclo di conversazioni dedicato alla «costruzione del cielo», promosso da Starrylink in collaborazione con l’Amministrazione comunale, ciclo che ha inaugurato i Pomeriggi in Vanvitelliano. Nella prima conferenza, tenuta venerdì scorso, padre Paolo Garuti si è occupato dell’aspetto religioso del cielo; venerdì prossimo Mario Giuliacci affronterà l’argomento dei fenomeni meteorologici; successivamente Renata Pisu tratterà del cielo e l’Oriente e Carlo Bertelli del cielo e l’arte. A Giorello, filosofo della scienza, è toccato l’aspetto scientifico del tema, non disgiunto dal suo più ampio significato culturale: «Il cielo: simbolo e scienza». Il relatore - introdotto da Marisa Strada, presidente di Starrylink - prende le mosse ricordando gli ultimi venti-trent’anni del Cinquecento, quando cominciano ad affermarsi le acquisizioni che rivoluzioneranno la tradizionale concezione tolemaica del mondo sostituita dal disegno copernicano dell’universo. Giorello proietta su uno schermo un disegno del cielo con il quale alla fine del ’500 l’inglese Thomas Digges presenta le idee di Copernico: il Sole è al centro del sistema, la Terra è un pianeta come gli altri, un pianeta che si muove almeno con la rotazione su se stesso e la rivoluzione attorno al Sole; sopra il sistema solare appare nel disegno il cielo delle stelle fisse. E’ una vera rivoluzione: nella Commedia di Dante, culmine della cultura medievale,
ad esempio, la Terra è al centro dell’universo, e al centro della Terra c’è l’Inferno, al suo opposto la montagna del Purgatorio e attraverso i vari cieli si sale al Paradiso. Il mondo di Dante è un mondo chiuso dalla volta stellata. Anche l’universo della rivoluzione copernicana - pur invertendo la posizione del Sole e della Terra - resta un mondo chiuso dal cielo delle stelle. Nel disegno ricordato però, nota Giorello, Digges va oltre Copernico presentando una serie innumerevole di stelle che sembra alludere a un universo senza confine, infinito. Ed è questa la rivoluzione maggiore. Fin dall’inizio della sua storia, sottolinea il relatore, l’uomo avvertì la necessità di indagare il cielo. La prima grande astronomia nasce in Babilonia, quando gli studiosi già distinguono le stelle vaganti (cioè i pianeti) dalle stelle fisse. Secondo una fonte, Talete seppe predire un’eclisse; Platone rappresenta l’antico filosofo troppo intento a guardare il cielo per vedere gli ostacoli sulla terra: quindi inciampa e cade. Per Giordano Bruno - filosofo dal quale Galileo attinge molto - la posizione eretta che consente all’uomo di guardare il cielo e le mani che gli consentono di indicarlo sono gli elementi che lo distinguono dagli altri animali. E Bruno, andando al di là delle intuizioni di Digges sull’infinità delle stelle, pensa che ogni stella sia un sole con i propri pianeti, dunque ritiene che i sistemi solari siano innumerevoli. Galileo, da parte sua, su questo punto non si pronuncia e parla di universo «indefinito». L’italiano poi, partendo da un disegno del 1609 dell’inglese Harriot e studiando con la potenza del «tubo ottico» (il telescopio) le ombre e le luci dovute alla superfice irregolare della Luna, conclude che la Luna è come un’altra Terra: allora non c’è differenza tra il mondo terrestre e il mondo dei cieli, ambedue sono retti da una stessa fisica: la Luna è cielo a noi come noi lo siamo alla Luna. Ariosto lo aveva già intuito poeticamente. Aiutandosi con la proiezione di altri disegni, Giorello ricorda come anche gli artisti rappresentano la nuova concezione del cielo, sottolinea come tutta l’opera di Leopardi abbia un grande respiro cosmologico, conclude che guardare il cielo è un modo per conoscere meglio noi stessi: dunque i cieli ci fanno più liberi di scegliere.