ESOTERICA - A cura di Attilio Mazza
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L’ANTICO SIMBOLISMO CRISTIANO




Flavio Caroli, «Il volto di Cristo. Storia di un’immagine dall’antichità all’arte contemporanea», Mondadori, 112 pagine, € 17,00


Quando fu dipinta la prima immagine di Gesù? Circa trecento anni dopo la sua morte. Lo afferma Flavio Caroli nel libro «Il volto di Cristo. Storia di un’immagine dall’antichità all’arte contemporanea», pubblicato da Mondadori (112 pagine, € 17,00). Il noto storico dell’arte osserva che in precedenza i cristiani non avevano ritenuto possibile raffigurare il viso di Dio incarnatosi nel Messia. Era vietato anche da altre religioni, dall’Ebraismo, innanzi tutto, in cui il Cristianesimo affonda le radici. 
La prima immagine di Cristo rinvenuta da Caroli è quella sconcertante, a primo acchito, di un uomo con la testa d’asino sulla croce. Tale insolito simbolismo è così spiegato dallo studioso: nella «letteratura dei primi secoli parecchie attestazioni ci dicono che i pagani deridono i cristiani come adoratori di un asino, e che fanno spesso riferimento al mulo (come capita d’altronde anche per il Dio dei Giudei). Secondo un'antica leggenda, infatti, il Dio dei Giudei era un asino oppure aveva una testa d'asino. Scrive il pensatore cristiano Tertulliano, alla fine del I secolo, nell'Apologetico: “Voi pagani avete fantasticato che una testa d’asino è il nostro Dio. Tale sospetto l’ha introdotto Cornelio Tacito. Costui, infatti, nel libro quinto delle sue Storie, raccontando la guerra giudaica fin dall'origine, dopo aver congetturato quello che ha voluto, tanto sull'origine quanto sul nome e sulla religione di quel popolo, narra che i Giudei, liberati dall'Egitto, o, come lui crede, cacciati via, trovandosi nelle vaste località dall’Arabia, quanto mai povere d'acqua, tormentati dalla sete, seguendo gli asini selvatici, che si credeva si recassero a bere dopo il pasto, poterono far uso di sorgenti; e per questo beneficio consacrarono la figura di questa bestia. Così, da qui si presunse, penso, che anche noi cristiani, come discendenti della religione giudaica, venissimo iniziati all'adorazione della medesima immagine».
La raffigurazione rozzamente graffiata nel II secolo si vede ancora sulla parete di una casa sul Palatino a Roma. Raffigura un crocifisso con la testa d’animale e una persona in atto di adorazione con l’iscrizione in greco: «Alessameno adora il suo dio». La testa dell'animale è, appunto, quella di un asino o di un mulo.
Che cosa pensassero gli antichi romani dei cristiani in quell'epoca lontana è stato tramandato da Tacito, il grande storico d’ideologia imperiale. Egli accenna, infatti, «a coloro che, odiati per le loro nefande azioni, il mondo chiama cristiani. Il nome deriva da Cristo, il quale, sotto l'imperatore Tiberio, è stato condannato al supplizio dal Procuratore Ponzio Pilato; soffocata, per il momento, quella rovinosa superstizione dilaga di nuovo non solo attraverso la Giudea , dove quel male è nato, ma anche in Roma, dove tutto ciò che c'è nel modo di atroce e di vergognoso da ogni parte confluisce e trova seguito».
Questo il giudizio negativo sul cristianesimo dell’illustre senatore, console e governatore di province, su una setta ancora circoscritta cui aderivano soprattutto esponenti delle classi meno privilegiate: bottegai, artigiani, piccoli commercianti. A Tacito, protagonista della società imperiale, quella umanità parve del tutto simile a quella che praticava i culti misterici orientali che offrivano speranze e promesse di una vita nell’aldilà.
«Quel Cristo mezzo uomo e mezzo somaro – annota ancora Caroli – è dunque l’atto nascente dalla grandiosa epopea immaginativa che per due millenni ha tentato di raffigurare il volto di Gesù. La partenza è lenta perché i primi cristiani esitano a rappresentare direttamente Cristo fino alla fine del III o all’inizio del IV secolo. La dottrina dell'incarnazione, cioè l'idea, fondamentale per il cristianesimo, che Dio si incarni nel Messia, agita immensi interrogativi intorno all’opportunità, o addirittura alla liceità di rappresentare Cristo medesimo», problema dibattuto con crescente veemenza per tutto il primo millennio.
Invece delle immagini del suo volto si preferiscono i simboli, e fra i primi quello del pesce per il fatto che le lettere dalla parola greca possono essere interpretate come l’acrostico di «Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore». Un altro simbolo fondamentale basato, invece, su una metafora letteraria con forte valenza figurativa, è quello dell'agnello, che origina l'idea del buon pastore, derivata dalle parole di Giovanni Battista che descrive Gesù come «l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo»; o da quelle di Cristo medesimo: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore»
Siamo all’incirca nel 300 d.C. – commenta Caroli – «e questo non può dirsi propriamente uno sforzo immaginativo per fantasticare sul volto di Gesù. Ma qualcosa ha cominciato a muoversi». E lo si riscontra nel più antico luogo di culto dei cristiani oggi noto, una stazione commerciale di una città di frontiera nel nord della Siria, Dura Europo. Sulla parete di una stanza si scorgono ancora, infatti, dipinti murali in cui sono raffigurati il Buon Pastore, Adamo ed Eva, il giardino dell’Eden, Davide che uccide Golia, due miracoli di Gesù: quello in cui cammina sulle acque e quello in cui risana il paralitico. Le immagine, pur danneggiate, documentano l’inizio dell'epopea della rappresentazione vera e propria del volto di Cristo. Poco, dopo, infatti, a metà del IV secolo, le storie di Gesù vengono rappresentate anche a Roma. E il suo viso, in forma considerevolmente realistica, è dipinta nelle catacombe di Commodilla: un uomo di statura alta, ben proporzionata, dallo sguardo improntato a severità, capelli lunghi e barba folta, la fronte liscia e serenissima; un uomo semplice e maturo, gli occhi azzurri, naso regolare che sembra discendere dalla stirpe palestinese, come rilevato dallo studioso Piergiuseppe Bernardi.
Il ciclo figurativo del volto di Cristo è ripercorso da Flavio Caroli nelle varie epoche: da quella bizantina, ai primi grandi maestri dell’arte, Cimabue a Giotto, e su su fino a Daumier, Gauguin, Guttuso, senza trascurare le immagini tramandate dal cinema. A cominciare dal «Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini che colpì particolarmente Caroli nel periodo dell’adolescenza ravennate, e che gli ha ispirato questa affascinante indagine.