Il ruolo di Gabriele d’Annunzio nella Grande Guerra, è ben noto. E lo puntualizza Mario Isnenghi, docente di Storia contemporanea a Venezia, in un ampio capitolo nel volume «Il mito della Grande Guerra», edito dal Mulino.
Gli accenti ultimativi, estremi e caratteristici del maggio radioso, sono quelli convalidati dal poeta con autorità presso gli ambienti ufficiali nelle giornate romane, subito «erettosi a bandiera e polo d'attrazione delle diverse anime dell'interventismo». Il giuoco delle parti e la sua stessa vocazione a porsi come vate della nazione in armi, che infine ritrova se stessa, gli assegnano un ruolo particolare. «Spetta a lui di tentare una sintesi oracolare e profetica dei fattori che spingono alla guerra». La guerra – farmaco polivalente – è chiamata a sanare, la pluralità dei mali collettivi e individuali. E il poeta si riconosce, e viene riconosciuto, «bardo dell'intervento e della guerra» tramite la concessione di varie tribune e casse di risonanza, non ultima quella prestigiosa del “Corriere della Sera”.
Nelle giornate dal 4 al 20 maggio 1915, dalla “Sagra dei Mille” alla sanzione del voto per la guerra, d'Annunzio ricupera e realizza, in una fitta serie di orazioni e messaggi, un mandato sociale che lo colloca in posizioni di privilegio, facendone quasi un oracolo e l'aedo. Il suo compito fondamentale è quello di mobilitare tutte le forze, razionali e irrazionali, in vista della guerra. Ed egli, con le «gesta aviatorie e marinare, costituirà un esempio vistoso dell'interrelazione tra uso individuale della grande occasione e uso politico delle esigenze e dei trasporti soggettivi, aggressivi o mistici, di violenza e di sacrificio».
Ciò che caratterizza gli interventi oratori di Gabriele d’Annunzio, educatore politico della Nazione, è la volontà di ricuperare, in vista della ricomposizione nazionale, «tutte le tradizioni ideologiche e politiche della penisola. Roma e gli Italici, Genova e Venezia, la monarchia sabauda e Garibaldi. Tutti i poli degli antichi e recenti contrasti territoriali, politici, di gruppo, che la scienza libresca può suggerire all'oratore, vengono ricuperati». L'intero repertorio classicista è messo a frutto per propagandare il messaggio della guerra «giusta e sacra» e il ruolo sottomesso del cittadino italiano.
Poi gli accenti aulici della riconciliazione e della religione nazionale lasciano poi il posto all'invettiva antigiolittiana «calcolatamente sferzante e plebea, e quindi agli accenti rivoltosi con cui si chiama il “popolo” a impedire l'“orribile assassinio”, contro il “tradimento”, la “cloaca” di “un pugno di ruffiani e di frodatori” capeggiati dal “vecchio boia labbrone” che vorrebbe strangolare la patria con il suo “capestro prussiano”». Il nemico diventa allora soprattutto quello interno, il neutralista «che vuol defraudare gli uomini d'Italia della loro patente d'uomini e continuare ad imporre alla nazione un “marchio servile”».
D’Annunzio – commenta infine Isnenghi – «il Vate, il Sacerdote della Patria mobilita tutto un repertorio di immagini, di allusioni e termini d'origine religiosa per elevare la guerra su un piedistallo di sacralità che la sottragga al giudizio politico dei cittadini, chiamati all'unità disciplinare e gregaria nel corpo mistico della nazione-chiesa».
Attilio Mazza