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John Woodhouse

«L’ottavo giurato. Giuseppe Sovera con d’Annunzio a Fiume»

Gedit Edizioni, 204 pagine, € 22,00


«O Fiume o morte!» fu il motto dei “Sette giurati di Ronchi”. Facevano parte della compagnia dei Granatieri di Sardegna che aveva occupato il porto a guerra finita il 17 novembre 1918, pochi giorni dopo l'armistizio. Ed erano i sette che poi sollecitarono Gabriele d'Annunzio a muoversi dalla Casa Rossa di Venezia per entrare nel porto di Fiume circondato dai granatieri e seguito da duemila irregolari. Comandante del primo battaglione dei Granatieri di Sardegna era Giuseppe Sovera (Tortona 1891 – 1979); diventerà il “Capitano di Ronchi” e, come John Woodhouse lo definisce proprio nel titolo del suo ultimo libro, pubblicato dalle Edizioni Gedit, sarà «L’ottavo giurato».
Il merito di Woodhouse – già professore di studi italiani all’Università di Oxford e fellow del Magdalen College, dove ha tenuto per anni la cattedra Fiat Serena, nonché autore di una ricca biografia di Gabriele d’Annunzio e di vari saggi – è quello di aver tratto dall’oblio un personaggio come Sovera che nell’impresa fiumana ebbe un ruolo di primo piano.
Lo studioso scrive, appunto, che Sovera, per oltre ottant’anni dopo quell’impresa, fu «quasi dimenticato dalla critica e dalla storia», e le sue riflessioni sulla vicenda fiumana «ignorate o storpiate». Dovette aspettare molti anni «prima di essere riconosciuto come uno dei corifei della marcia da Ronchi a Fiume e come uno dei propugnatori più forti della causa fiumana durante il periodo 1919-1921».
Nato da genitori benestanti e radicali, Sovera fu orgoglioso delle sue origini e delle virtù risorgimentali della famiglia. Nell'autunno del 1918, ormai capitano pluridecorato, appoggiò la causa di Fiume, occupata a guerra finita dai granatieri – come accennato –, città destinata, per l'ingerenza americana a Versailles, a sacrificare la propria indipendenza a una Jugoslavia ancora inesistente. Un anno dopo Sovera fece da tramite portando messaggi dall'enclave a Gabriele d'Annunzio e cercando di coinvolgerlo in un'impresa che avrebbe assicurato l'italianità del porto. Modesto e reticente, lasciò trasparire qualche dettaglio sul proprio ruolo quando nel 1961 venne eletto “Reggente della Legione del Vittoriale” e si adoperò per commemorare il poeta-eroe.
Woodhouse ricostruisce nel suo saggio la storia spirituale di Sovera attraverso manoscritti e documenti della sua biblioteca e studiando i testi da cui risulta il suo interesse per la storia risorgimentale connessa a quella della propria famiglia. L’autore passa quindi, nel secondo capitolo, a inquadrare sinteticamente la vicenda dell’enclave di Fiume rilevando come il fiumanesimo fu inteso dai sostenitori del fenomeno un’impresa «eroica e patriottica che avrebbe potuto elevare l'Italia a una nuova dignità imperiale, mentre dagli avversari venne considerata come il pretesto per introdurre un regime autoritario che avrebbe inquinato l'atmosfera politica di allora e infine avrebbe rovinato il loro paese gentile e cortese».
La posizione di Giuseppe Sovera fu equilibrata, distante «sia dall'anarchismo socialista degli oppositori ai governi Nitti e Giolitti, sia dal fascismo che dopo il 1921 si servì di quell'anarchismo per salire al potere sfruttando la debolezza dell'ultimo governo Giolitti». Ritenne che d'Annunzio «la pensasse come lui, e dopo l'espulsione dall'enclave nel gennaio del 1921, il buon capitano rilasciò il suo ultimo ordine del giorno in cui sottolineò la necessità per i legionari di obbedire al Comandante quale salvatore indipendente della patria». E d’Annunzio, almeno nei primi due anni dopo l'abbandono dell'enclave, incoraggiò tale linea. Tuttavia, meno di tre anni dopo si lasciò «sedurre dall’oro di Mussolini e si ritirò dalla politica seria».
Lo studioso inglese approfondisce nel terzo capitolo la storia della Marcia di Ronchi, «vista da alcuni come precedente fortuito per la Marcia di Roma». Sovera, nel suo resoconto dei negoziati e della marcia stessa, tenta per la prima volta «di correggere le prime impressioni degli storici dell'impresa». Nel capitolo successivo chiarisce alcuni avvenimenti nell'enclave «anche per mettere in rilievo la posizione di Sovera, mai prima studiata, e per definire i rapporti tra il Comandante e i suoi legionari». Infine, nell’ultimo capitolo, intitolato «Addio alle armi», Woodhouse traccia sommariamente gli ultimi anni del personaggio, «concentrandosi soprattutto sul suo ruolo come Reggente della Legione del Vittoriale».
Assai interessante emerge da questa ricerca il rapporto fra d’Annunzio e il fascismo, periodo storico non ancora definitivamente approfondito. «Durante il ventennio fascista, come c'era da aspettarsi, presero il sopravvento gli studiosi sostenitori del regime – scrive Woodhouse –. Tale fu Angelo Sodini, per cui “il Fiumanesimo, sopravvissuto nel Fascismo, aveva raggiunta una sua mèta». Paolo Alatri, dall’ideale comunista, durante la reazione del secondo dopoguerra, sostenne opinioni molto diverse: «“Gli ‘Eia, eia, alalà’, gli ‘A noi!’, che diventeranno i gridi di prammatica di Mussolini e del fascismo, furono presi dall'arditismo e diffusi da d'Annunzio e dal legionarismo fiumano. Il dialogo con la folla per riceverne conferma e investitura mistica fu invenzione di d'Annunzio a Fiume”. Onde venne rafforzato il mito di Gabriele d'Annunzio come il Giovanni Battista del fascismo».
Woodhouse sembra condividere, a questo proposito, quanto scrisse Donatello De Lugli nella sua prefazione al volume di Pietro Badoglio «Rivelazioni su Fiume»: «Noi riteniamo che il lettore italiano sia stanco di propaganda, mentre molti invece credono ancora che, dopo essersi ubriacato di una propaganda, esso ne desideri ardentemente un'altra contraria».


Attilio Mazza