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Flavio Caroli
Il volto e l’anima della natura

Mondadori, 116 pagine, € 17,50


In quale epoca gli artisti cominciarono a “vedere” e a dipingere il paesaggio? Quando nacque – per dirlo con le parole di Flavio Caroli – «il paesaggio “puro”, la visione naturale che espunge la figura umana dalla rappresentazione, e diventa realtà espressiva autonoma, specchio delegato delle tempeste, o dei sogni che si agitano nel cuore dell’uomo»?
Flavio Caroli, ordinario di Storia dell’Arte moderna presso il Politecnico di Milano, e personaggio ben noto anche per i suoi libri, scrive nel suo recentissimo saggio Il volto e l’anima della natura, pubblicato da Mondadori, che «la scomparsa della figura umana comincerà a verificarsi in maniera massiccia verso la fine del Cinquecento». Fu quello il momento di rottura dell’«unità» umanistica rinascimentale, dello «sgretolamento – antropologicamente risolutivo, e foriero di infinite conseguenze – del monolite rinascimentale». Non più, quindi, «l’uomo misura di tutte le cose», «entità intangibile avvolta da un paesaggio che, tutt’al più, ne commenta la centralità nell’equilibrio dell’universo».
E’ sicuramente difficile, anzi impossibile, «identificare una sorgente unica» della pittura di paesaggio che fiorirà soprattutto nel Seicento. Il tema ebbe larghissima fortuna europea, a cominciare «dai pittori fiamminghi cinquecenteschi, sempre sottovalutati, o addirittura spregiati dalla civiltà “umanistica”».
Caroli individua una «sicura, e altissima, sorgente del paesaggio “puro” » in Germania, nel bacino «di cultura che, dopo la nascita del protestantesimo, si lega alla religione luterana». E’ lì che si sviluppa una nuova concezione del fare pittura nel terzo decennio del Cinquecento con Albrecht Altdorfer (1480 ca – 1538), autore dei primi «paesaggi sublimi privi di figure»: il Paesaggio con ponte (conservato alla National Gallery di Londra) e il Paesaggio danubiano (esposto alla Alte Pinakothek di Monaco). In queste opere il «paesaggio è sentito come organismo vivente, insidioso (ancorché incantevole) per la sua solitudine, forse nemico, per le forze della natura che sovrastano ed escludono la potenza dell’uomo». E ancora lo studioso scrive che probabilmente tali visioni «severe e terrificanti» derivano «da idee capillarmente diffuse fra i mistici protestanti».
Ma ecco, alle soglie della modernità, un altro grande artista nordico, Pieter Bruegel il Vecchio (1526/30 – 1569), creatore di lavori che hanno segnato l’immaginario collettivo: l’Inverno, La Caduta di Icaro, soprattutto Il trionfo della Morte che rende «tutti veramente e definitivamente uguali». Caroli annota che in quest’ultimo capolavoro è «la natura a governare le miserie e lo sciagurato destino degli uomini»; un ambiente naturale, totalmente estraneo alla «macchina “architettonica-prospettica” dell’arte italiana». Alla ferocia degli uomini fa da contrappunto «una natura indifferente, “pura”, scarsamente turbata dalle tragedie che si scatenano sotto di lei»; una natura che è legge uguale per tutti.

A cura di Attilio Mazza