CULTURA - A cura di Paola Bonfadini

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Perché non possiamo più dirci Latini:
Fermare Attila di Luca Canali


Memoria, eterna illusione.
Non è vero che l’uomo vuole ricordare. Anzi. Meglio dimenticare storia, persone, esperienze. Meglio vivere nel sogno d’un eterno scintillante presente. Meglio non curarsi degli insegnamenti millenari. È più comodo, infatti, abbandonarsi all’oblio. La storia “non è maestra di un bel niente” dice Montale in contrapposizione al ciceroniano “historia magistra vitae”.
Facile, quindi, cedere alla superficialità, all’indifferenza, ad uno stordente divertissement per combattere la segreta consapevolezza del nostro vuoto interiore ed esteriore.
Siamo una società immarciscente, destinata inesorabilmente a finire. Di chi è la colpa? Di noi stessi. La civiltà occidentale si sta distruggendo volentieri senza alcun rimorso. Perché? Per incoscienza, arrogante ignoranza, irresponsabilità. I “nani” sopprimono con accanita gradualità i “giganti” greci  e latini e sopravvissuti fino ad ora agli oltraggi del tempo.
Che fare? È indispensabile riscoprire la linfa inesauribile della cultura classica, specialmente latina. Bisogna lottare con tutte le forze per far conoscere la profondità, il lucido disincanto, la visione etica di un mondo da cui, piaccia o non piaccia, deriviamo attraverso la rielaborazione cristiana.
Questa la tesi di fondo di Fermare Attila. La tradizione classica come antidoto all’avanzata della barbarie (Bompiani, Milano 2009), recente fatica di Luca Canali, studioso e latinista, docente di letteratura latina per anni nelle Università di Roma e Pisa e dal 1981 scrittore e critico letterario. Il volume, con uno stile scorrevole, ma non trascurato, illustra aspetti e suggestioni rilevanti della latinità. Nei vari saggi l’autore tenta, con citazioni originali tradotte da lui e da altri (Riccardo Scarcia, Cesare Vivaldi, Ezio Savino e Simone Beta), di evidenziare la ricchezza della “visione del mondo” antica.
Nella Prefazione (CANALI, op. cit. 2009, pp. 7-49), lo studioso analizza i meccanismi che ci hanno spinto ad annullare il patrimonio secolare di saggezza. Lo scrittore afferma: “Fuori di metafora: simili ad Attila, distruttore di civiltà, stiamo diventando noi. Non lo siamo ancora, ma i sintomi sono gravi: il tentativo di annientare la cultura classica senza la quale la scienza e la tecnica possono trasformarsi in una fabbrica di mostri; il mercato cinico e selvaggio; la pubblicità urlata; la televisione frenetica, violenta e gesticolante; la dismisura dei consumi; la fretta e l’approssimazione affaristica o l’eccessiva specializzazione delle professioni; le menzogne propagandistiche e i luoghi comuni della politica. Che cosa vuole essere dunque questo libro? Non altro che un tentativo, senza presunzioni né illusioni, di mettere in salvo e “divulgare” per un vasto pubblico testi classici e sfondi storico-culturali che rischiano di essere accantonati nelle scuole, nelle università, e anche in una parte di comuni lettori interessati all’argomento” (CANALI, op. cit. 2009, p. 7). “Nell’età contemporanea “i due «valori» supremi sono vendibilità e spettacolarità. […] Latitanti in questo quadro deprimente sono il buongusto e il senso della misura. […] In un periodo in cui tutti parlano di recuperare «valori», si sta paradossalmente diffondendo a macchia d’olio una travolgente ondata di falsi valori: ne abbiamo già indicati alcuni, ma aggiungiamo la cultura come valanga di informazioni mediatiche.” (CANALI, op. cit. 2009, p. 9).
La colpa di ciò si deve ad una mentalità tesa a smantellare passo dopo passo tutta la costruzione antichista, nella convinzione che “la cultura non immediatamente utile sia null’altro che un esercizio intellettuale di eruditi o di sussiegosi perdigiorno. Poi, [è indispensabile] ricordare sempre il pensiero degli antichi che sostenevano la necessità di armonizzare fra loro l’utile e l’onesto: studiamo dunque, se si vuole, il cinese utile ai commerci, come voleva quel giornalista inglese, ma insieme diamo respiro al nostro bisogno di fantasie e di pensieri “alti”, che possono nascere soltanto dalla disinteressata, cioè non utilitaristica, frequentazione della letteratura e dell’arte di ogni tempo e paese, quindi anche dell’antichità classica greco-latina. Una mente nutrita di questi alimenti intellettuali, non immediatamente utili, risulterà infine giovevole anche ad ogni dottrina tecnico-scientifica erroneamente intesa, essa sola, utile e necessaria.” (CANALI, op. cit. 2009, p. 9).
Lo studioso, perciò, attraverso un excursus dai più arcaici documenti scritti fino alla tarda latinità, individua concetti-chiave su cui poggia la civiltà romana: “la collaborazione tra scrittori e potentati” (CANALI, op. cit. 2009, p. 11); la provenienza multietnica degli artisti in una comunità “aperta”; un’identità nazionale “allargata” capace di integrare i non Romani, come ribadisce Virgilio: “Tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes), pacique imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos.” (“Tu, o Romano, ricorda di dominare le genti (queste / saranno le tue arti), stabilire norme alla pace, / risparmiare i sottomessi e debellare i riottosi.” (VIRGILIO, Aeneis, VI, vv. 851- 853, in CANALI, op. cit. 2009, p. 25).
Anche il presunto imperialismo romano viene spiegato nella maniera seguente: “Soggiogare per non soccombere fa scattare nell’animo dell’uomo il piacere di vincere, dominare, arricchirsi, meglio se all’ombra di una bandiera e nella prospettiva di una missione civilizzatrice” (CANALI, op. cit. 2009, p. 35).
Non manca un senso umanissimo della caducità della vita, coglibile, fra i tanti, in Catullo, Lucrezio, Orazio, Virgilio o negli elegiaci come Tibullo e Properzio.
Lo scritto I mille volti di Eros (CANALI, op. cit. 2009, pp. 51-151), offre un quadro tematico e cronologico dei diversi aspetti del sentimento da Lucrezio ad Ovidio. Certo, è evidente  che la concezione dell’amore classico è spesso diversa da quella giudeo-cristiana codificata dal Medioevo. La morale maschile è in prevalenza bisessuale o scopertamente omosessuale. L’esperienza erotica è condivisa con gioia e libertà. L’artista sa soffrire per amore. per una donna o per un uomo non è importante, in quanto ciò che conta è l’autenticità e intensità dello stato d’animo.
L’artefice del De rerum natura si trasforma nel tormentato cronista della passione, come si legge nel Libro IV: ciascuno vive una continua follia e il “pensier d’amor” può essere, forse, vinto o almeno controllato da un sospirato equilibrio, recuperando “un’effettiva realtà dei sentimenti” (CANALI, op. cit. 2009, pp. 56-63).
“Fedele d’amor”, vittima di una simile condizione, è Catullo, i cui componimenti non possiedono “il senso del peccato” (CANALI, op. cit. 2009, p. 68) e oscillano tra odio e amore per Lesbia: “nec quae fugit sectare, nec miser vive, / sed obstinata mente perfer, obdura. / […] At tu Catulle, destinatus obdura.” (“Non inseguire chi fugge, non vivere in pena, / soffri con animo fermo, sopporta, resisti. / […] Ma tu irremovibile a tutto, Catullo, resisti. “, CATULLO, Carmina, 8, in CANALI, op. cit. 2009, p. 75); “Quare cur te iam amplius excrucies? / […] Difficile est longum subito deponere amorem; / difficile est, verum hoc qua lubet efficias. / Una salus haec est, hoc est tibi pervincendum; / hoc facias, sive id non pote sive pote.” (“Perché, dunque, continui ad accrescere l’antico tormento? / […]  È difficile deporre una lunga passione: / è difficile, ma ci devi riuscire comunque. / Questa è la sola salvezza, questa la tua vera vittoria; tenta l’impresa, possibile o perduta che sia.” (CATULLO, Carmina, 76, in CANALI, op. cit. 2009, pp. 79-80).
Virgilio appare “il più profondo conoscitore del genere umano” (CANALI, op. cit. 2009, p. 84), poiché riesce a dipingere le più intime sfumature dell’interiorità.
Con Orazio si passa ad un modello di “bene vivere” basato sull’“aurea mediocritas”, “che non deve essere considerata un’esaltazione del «giusto mezzo» fra «gli opposti estremismi», cioè una base teorica dell’opportunismo individualista, bensì il dovere dell’equilibrio morale e intellettuale contro ogni forma di fanatismo (oggi diremmo integralismo o fondamentalismo): un equilibrio basato a sua volta sul «senso della misura»: est modus in rebus. La necessità di intendere la mediocritas non già nel senso corrivo di «mediocrità», ma in quello etico di equilibrio della mente e dei sentimenti, è confermata dall’inizio di una delle odi più significative. “Aequam memento rebus in arduis / servare mentem.” (“Ricorda di serbare l’animo equilibrato / nelle avverse vicende.”). (ORAZIO, Carmina, II, 3, vv. 1- 2, in CANALI, op. cit. 2009, p. 99).
Ovidio, invece, è caratterizzato “da un’assoluta indifferenza etica che sostanzia la sua poesia” (“Cui peccare licet, peccat minus.”, “Chi può liberamente peccare, pecca meno.”, OVIDIO, Amores, III, 4, vv. 1- 12, in CANALI, op. cit. 2009, pp. 123-124). Petronio, con il Satyricon, esprime, inoltre, un’“altra forza inesorcizzabile, il sentimento di morte” che fa del testo “una frenetica vicenda che si svolge sotto il segno di Eros e Thànatos, Amore e Morte” (CANALI, op. cit. 2009, p. 131). Ecco alcune frasi fondamentali: ”Ergo vivamus, dum licet esse bene.” (“Dunque viviamo, finché possiamo anche spassarcela.”, PETRONIO, Satyricon, XXXIV, 10, in   CANALI, op. cit. 2009, p. 133); “Si bene calculum ponas, ubique naufragium est.” (“Se fai bene il calcolo, il naufragio è dovunque.” (PETRONIO, Satyricon, CXV, 2- 17, in CANALI, op. cit. 2009, pp. 133-134).
In età flavia, Giovenale e Marziale raffigurano luci ed ombre della romanità: nel primo, però, c’è indignazione (indignatio) per la decadenza generale; nel secondo, compare il ritratto feroce di una comunità ormai morta.
Nel successivo saggio intitolato Stato e rivoluzione (CANALI, op. cit. 2009, pp. 153-183), titolo preso a prestito da un famoso testo di Lenin, lo studioso affronta lo spinoso problema del rapporto tra potere e cultura nel periodo fra I secolo a.C. e I secolo d.C, all’epoca delle guerre civili guidate dai “signori della guerra” (warlords).
La letteratura latina è, in definitiva, una “cultura di regime”, che cerca la “benevolenza dei potenti” (CANALI, op. cit. 2009, p. 10), dal momento che l’intellettuale è sempre impregnato del contesto storico in cui si trova. Cicerone, ad esempio, pur con errori di valutazione, intuisce la necessità di un governo forte capace di porre un freno alle terribili lotte intestine. Ottaviano, in realtà monarca assoluto di Roma, avverte l’esigenza di controllare le arti per realizzare un indiscutibile consenso. Sallustio, Livio, Tacito sono altrettante facce di un’articolata visione politica ed etica.
Sallustio, in particolare, nel De coniuratione Catilinae, lascia immagini quasi profetiche: “Habemus luxuriam atque avaritiam, publice egestatem, privatim opulentiam. Laudamus divitias, sequimur inertiam, inter bonos et malos discrimen nullum, omnia virtutis praemia ambitio possidet. Neque mirum: ubi vos separatim sibi quisque consilium capitis, ubi domi voluptatibus, hic pecuniae aut gratiae servitis, eo fit, ut impetus fiat in vacuam rem publicam.” (“Abbiamo avidità e lusso sfrenato, misere le pubbliche finanze, floride le private. Lodiamo la ricchezza, cediamo all’inerzia. Nessuna distinzione fra galantuomini e avventurieri; le cariche pubbliche, che dovrebbero essere premio alla virtù, ottenute a forza di intrighi. Né c’è da stupirsene: quando ognuno per proprio conto mira all’utile individuale, quando in casa si è schiavi dei piaceri e qui in Senato del denaro e delle clientele, da ciò non può derivare altro che violenza contro lo Stato indifeso.”, SVETONIO, De coniuratione Catilinae, LII, 22- 23, in CANALI, op. cit. 2009, pp. 164-165). Illuminante, ancora, è il giudizio riguardante la corruzione che si riflette sui giovani: “Postquam divitiae honori esse coepere et eas gloria imperium potentia sequebatur, hebescere virtus, paupertas probro haberi, innocentia pro malevolentia duci coepit. Igitur ex divitiis iuventutem luxuria atque avaritia cum superbia invasere: rapere, consumere, sua parvi pendere, aliena cupere, pudorem pudicitiam, divina atque umana promiscua, nihil pensi neque moderati habere.” (“Dopo che le ricchezze cominciarono ad essere in onore e la gloria, il potere ad essere loro soggette, il valore cominciò a infiacchirsi, la povertà ad essere tenuta in conto di disonore, l’integrità ad essere ritenuta malevolenza. Dunque, dopo le ricchezze, la lussuria, l’avidità insieme con la superbia invasero i giovani: rapinare, dissipare, stimare poco il proprio, desiderare l’altrui, senza distinzione fra vergogna e pudicizia, promiscui fra loro l’umano e i divino.”, SVETONIO, De coniuratione Catilinae, XII, 1- 2, in CANALI, op. cit. 2009, p. 164).
Il capoluogo laziale, grande metropoli dell’antichità, nel capitolo L’invivibile Roma (CANALI, op. cit. 2009, pp. 185-196), accenna ad aspetti attuali nelle moderne città, come il traffico, la delinquenza, l’integrazione, l’inquinamento. Giovenale viene definito “indubbiamente un «reazionario», come diremmo oggi. Ma, come accade spesso, il «reazionario» può a volte scoprire nell’ambiente che lo circonda difetti e vizi che sono il risvolto negativo inevitabile dello sviluppo economico e del mutamento dei costumi, difetti e vizi, che un «progressista» finge di ignorare senza cercare di correggerli, pensando che essi siano un inevitabile scotto da pagare al rinnovamento della società.” (CANALI, op. cit. 2009, p.188).
Il capitoletto Sententiae fructus experientiae (CANALI, op. cit. 2009, pp. 197-212) è un florilegio, cioè una selezione ragionata dei principali motti proverbiali latini dalle origini all’epoca medioevale usati ancor oggi, come “Fama crescit eundo” (“La fama cresce col propagarsi” da Virgilio, CANALI, op. cit. 2009, p. 202); “O quantum est in rebus inane” (“O quanto vuoto c’è nelle cose”, da Persio, CANALI, op. cit. 2009, p. 205); “Quod periit, periit” (“Ciò che perì, è perduto”, da Plauto, CANALI, op. cit. 2009, p. 205), “Quandoque bonus dormitat Homerus” (“A volte anche il grande Omero sonnecchia”, dall’Ars poetica di Orazio, CANALI, op. cit. 2009, p. 206), “Oderint dum metuant” (“Mi odino, purché mi temano”, da Accio, CANALI, op. cit. 2009,  p. 207).
Chiude il volume una divertita entusiasta “telecronaca” sportiva relativa a tre gare, ossia La naumachia, Il pugilato e La corsa, cantate da Virgilio nel Libro quinto dell’Eneide e nelle quali l’autore “riesce a toccare pressoché tutte le corde della sensibilità e dell’esistenza umane” (CANALI, op. cit. 2009, p. 213).
Pienamente condivisibile risulta, in conclusione, l’esortazione accorata dello scrittore: “Insomma frequentiamo gli antichi, per essere davvero umanamente moderni! E combattiamo ogni iniziativa pseudodidattica che s’illuda di poter formare il professionista e l’intellettuale moderno, tagliando le radici di un’intera tradizione classica e umanistica, senza la quale neanche lo scienziato o il tecnico dell’informatica potranno esercitare non solo con efficienza ma anche con genialità la loro professione.” (CANALI, op. cit. 2009, p. 196).

Per saperne di più

LUCA CANALI, Fermare Attila. La tradizione classica come antidoto all’avanzata della barbarie, Bompiani, Milano 2009.