Rassegna Stampa

Venerdì 11 Aprile 2003

Carlo Bertelli al Vanvitelliano

IL CIELO RIFLESSO NELLO SPECCHIO DELL’ARTE MEDIEVALE

di Alberto Ottaviano



Un raffinato viaggio dentro la concezione del cielo dell’uomo medievale come è stata rispecchiata nell’arte. A compierlo è stato Carlo Bertelli, che con la sua relazione ha chiuso ieri nel salone Vanvitelliano l’originale ciclo di incontri dedicato alla «costruzione del cielo». Dopo avere indagato sul cielo della religione (padre Paolo Garuti), su quello della filosofia e della scienza (Giulio Giorello), su quello della meteorologia (Mario Giuliacci) e su quello dell’Oriente (Renata Pisu), è stata dunque la volta del cielo dell’arte. Carlo Bertelli (sotto nella foto) è un «illustre amico dell’arte bresciana», come lo ha definito presentandolo al pubblico Marisa Strada, presidente di Starrylink, il «portale del cielo» che in collaborazione con l’Amministrazione comunale ha promosso queste conversazioni curate da Antonio Sabatucci. Lo studioso ha infatti realizzato, con Gian Pietro Brogiolo, la grande rassegna sul «Futuro dei Longobardi» in Santa Giulia, oltre alle mostre «M’illumino d’immenso» e «Bizantini, Croati, Carolingi». Bertelli è stato tra l’altro direttore della Pinacoteca di Brera e soprintendente ai beni artistici e storici di Milano. Accompagnato dalla proiezione di diapositive - purtroppo scarsamente visibili al pubblico per le cattive condizioni della luce circostante - il relatore, come s’è accennato all’inizio, ha focalizzato la sua analisi sul cielo dell’uomo del Medioevo: un uomo che aveva chiara la consapevolezza del suo stato di peccato. Dunque il cielo - abitato da varie creature, dagli angeli, ai cherubini, ai serafini e così via secondo la precisa gerarchia teorizzata da Dionigi l’Aeropagita - era soprattutto visto come una meta futura. Una meta dove si sarebbe comunque celebrato il trionfo del bene, secondo la predizione di San Giovanni, che descrive prima della fine della storia la battaglia decisiva tra le forze del bene e quelle del male: allora ventiquattro vecchi - come appare in numerosi codici e incisioni - celebreranno il trionfo del bene. E quando rappresentano Cristo gli artisti medievali proiettano nel cielo l’apparato celebrativo di un re sulla terra, con accanto San Pietro e San Paolo. A Bamberga un Cristo in trono appare, ad esempio, circondato da animali. In una tomba risalente a prima di Costantino, trovata a Roma sotto San Pietro, il sole è visto come un Apollo su un carro con cavalli bianchi; è un sole invitto che diventa il Cristo vincitore: la realtà fisica si trasforma qui nella promessa di qualcosa di distante. Ma ci sono altre rappresentazioni medievali del cielo, continua Bertelli. Come quelle precedute dagli studi dei Siri e dei Caldei già nel 900 a.C., che registravano i passaggi delle stelle identificando i segni dello Zodiaco. Quei gruppi di stelle invitano a pensare che la loro presenza in cielo risponda a qualche fine che ci riguarda direttamente. E i segni dello Zodiaco appaiono, con disegno svelto e sicuro, in un manoscritto di Montecassino del IX secolo, così come in un altro codice anch’esso del IX secolo. In un’incisione di Norimberga del 490 ogni segno dello Zodiaco è collegato a un organo del corpo umano, a sottolineare la diretta influenza sulla nostra vita. Il cielo, dice ancora il relatore, può essere rappresentato anche come qualcosa che sta a una distanza misurabile da noi: insomma, si può raggiungere. Ecco allora le varie raffigurazioni della Torre di Babele, simbolo di un’inaudita superbia. E si può vedere il cielo pure attraverso la trasfigurazione di Cristo che gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo contemplarono sul monte Tabor. Nei mosaici di Ravenna, in Sant’Apollinare in Classe, la trasfigurazione appare come uno squarcio dentro il cielo. Bertelli si sofferma su numerosi altri tipi di iconografie. Infine ricorda la concezione scientifica del cosmo medievale fondata su Tolomeo, che vede il mondo come una serie di sfere mobili con al centro la Terra: un mondo mosso da una forza intrinseca, «l’amor che move il sole e l’altre stelle» di Dante. Una visione bene descritta nelle miniature cinquecentesche di alcuni codici della Commedia. Ma all’inizio del Seicento Galileo scopre una «supernova», una stella morente, poi le macchie solari (sarà l’inizio delle sue disgrazie): è la scoperta che anche in cielo c’è il divenire. Il Medioevo è finito.